Segesta per l’anno 2014 ha scelto di sostenere l’attività di un giovane ricercatore, la dottoressa Maria Serpente del “Centro Dino Ferrari” dell’Università degli Studi di Milano – Fondazione IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico con un assegno di studio della durata di 12 mesi per il progetto:

“Ricerca di marcatori biologici per la malattia di Alzheimer: analisi genetica, di espressione e proteomica”

Abbiamo chiesto alla giovane ricercatrice del Centro Dino Ferrari di Milano, di spiegarci  come riconoscere la malattia e cosa si può fare per rallentarla:

Dott.sa, ci spiega quali sono i sintomi dai quali è possibile riconoscere la malattia di Alzheimer?

Il più precoce ed evidente tra tutti i sintomi che possono far pensare alla malattia di Alzheimer è sicuramente una perdita significativa della memoria che si manifesta all’inizio soprattutto con difficoltà nel ricordare eventi recenti e successivamente si aggrava con lacune in ambiti sempre più estesi.

Ovviamente però le caratteristiche cliniche della malattia possono variare notevolmente da soggetto a soggetto.

La fase di transizione tra la normalità cognitiva e lo sviluppo dell’Alzheimer è il “deficit lieve della memoria o MCI (Mild Cognitive Impairment)”, che non configura ancora un quadro di demenza conclamata sebbene le funzioni cognitive non siano perfettamente normali per l’età. Le cause di questo deficit lieve possono essere diverse e non necessariamente legate allo sviluppo della malattia di Alzheimer (ad esempio uno stato  depressivo).

E’ dunque di fondamentale importanza capire in quali casi il deficit della memoria sia espressione precoce di malattia di Alzheimer e quando invece ci siano cause reversibili, curate le quali la memoria torna ad essere normale.

 

Perché è così importante riconoscere in tempo la malattia?

La diagnosi, ad oggi è di probabilità e può essere posta solo in presenza di deficit della memoria e di un’altra funzione del cervello (ad esempio il linguaggio) e di impatto significativo sulla vita di tutti i giorni (ad esempio trascuratezza della persona, incapacità di svolgere le attività della vita quotidiana).

Da queste considerazioni emerge che la diagnosi viene fatta in uno stadio piuttosto avanzato di malattia, quando i sintomi sono conclamati.

E’ noto però che la cascata di eventi che porta alla malattia inizia molto prima della comparsa dei sintomi (anche 10-15 anni prima), ed è proprio in queste fasi che sarebbe opportuno un trattamento, in quanto il danno è ancora parziale e recuperabile.

 

Una volta accertata la presenza della patologia cosa si può fare?

 

Vorrei sottolineare ancora una volta l’importanza di una diagnosi precoce. A questo proposito,  in fase di MCI, sono state proposte nuove linee guida, che prevedono l’utilizzo di marcatori biologici, cioè di indicatori oggettivi di danno neuronale, che sono misurabili in fluidi biologici o attraverso tecniche radiologiche, anche in assenza di sintomi clinici conclamati. Queste considerazioni sottendono la possibilità di effettuare una diagnosi precoce, in una fase in cui il declino cognitivo non è evidente ed in cui il danno è ancora potenzialmente reversibile impostando un trattamento precoce.

 

E’ possibile curare l’Alzheimer?

 

Ad oggi, il trattamento della malattia di Alzheimer è di tipo “sintomatico”. I farmaci a disposizione (anticolinesterasici e memantina) agiscono cioè sui sintomi, ma non sulle cause della malattia, che continua, sebbene più lentamente, a progredire. I nuovi farmaci, ad oggi in corso di sperimentazione sull’uomo, mirano invece ad interferire con i processi patologici che avvengono nel cervello durante lo sviluppo e la progressione della malattia. La maggior parte dei nuovi composti in studio è stata selezionata per interferire con la deposizione di una proteina chiave nello sviluppo della malattia di Alzheimer: la proteina beta amiloide.

 

A che punto è la ricerca sul tema?

 

Nonostante risultati molti buoni nel modello animale, nell’uomo ad oggi non si è ancora arrivati a risultati promettenti. La ragione sta verosimilmente nel fatto che l’intervento farmacologico è troppo tardivo; in pratica quando i sintomi dell’alzheimer compaiono il danno è pressoché fatto: la maggior parte delle cellule del cervello sono morte e qualsiasi tipo di trattamento non è in grado di risolvere la situazione. Per questo motivo, gli sforzi della comunità scientifica operante nel settore delle demenze sono sempre più volti ad identificare gli stadi iniziali della malattia, al fine di poter intraprendere precocemente strategie terapeutiche/riabilitative preventive e rallentare la progressione del deterioramento  cognitivo

 

 

In Italia siamo all’avanguardia in fatto di nuove tecnologie?

 

In Italia esistono diversi centri in cui la diagnosi, la cura, ma anche e soprattutto la ricerca nel campo delle malattie neurodegenerative sono all’avanguardia.  Ad esempio, L’Unità Valutativa Alzheimer (U.V.A.), diretta dal Prof. Scarpini, presso il Policlinico di Milano, effettua attività diagnostiche, terapeutiche, e di ricerca, sia clinica (con farmaci in corso di sperimentazione) sia di base.  L’attività clinica comprende un percorso diagnostico-differenziale con possibilità di eseguire tutti gli accertamenti clinici e strumentali necessari alla diagnosi dei disturbi cognitivi e della memoria.  Per quanto riguarda l’attività di ricerca, il laboratorio, diretto dalla Dott.ssa Daniela Galimberti con cui lavoro, si occupa ormai da anni, di chiarire i meccanismi genetici, epigenetico e bio-molecolari della malattia di Alzheimer e di altri tipi di demenze.

 

 

Su cosa si stanno concentrando, o si concentreranno, i suoi studi?

 

Lo scenario descritto in  precedenza sottolinea l’importanza di raffinare gli strumenti diagnostici. E’ proprio qui che si stanno concentrando e si concentreranno i nostri studi. Il nostro obiettivo è quello di riuscire a identificare un possibile nuovo bio-marcatore, facilmente dosabile, ad esempio nel sangue, che possa aiutare a discriminare soggetti più a rischio, e indirizzarli verso ulteriori approfondimenti diagnostici, oppure che possa aiutare a discriminare tra vari tipi di malattie dementigene.

 

 

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